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Uzak

Silvia Di Paola, Cinema Eoltre (Italy), 27 Giugno 2004


“Uzak”: raccontare la lontananza per immagini. Ci riesce e toglie il fiato il talentuoso turco Nuri Bilge Ceylan in un film indimenticabile


Più che la solitudine, la distanza. Da tutto, da tutti e da se stesso. Non una distanza materiale ma una distanza dell’animo: uno scollamento da tutto ciò che, pure, gli ruota intorno.

E’ una intima lontananza quella dentro cui si dibatte, rassegnato ma non troppo, il fotografo Mahmut, protagonista del bellissimo Uzak firmato dal turco Nuri Bilge Ceylan (qui anche sceneggiatore, produttore e direttore della fotografia) e premiato nel 2003 al Festival di Cannes con il Gran Premio della Giuria ((prima foto mentre riceve il premio dalle mani di Sting) e una Palma ex aequo per i due protagonisti (Muzaffer Ozdemir e il più giovane Mehmet Emin Toprak, morto in un incidente d’auto immediatamente dopo le riprese).

La lontananza, che il film traduce in eleganti immagini malinconiche che ci inietta dentro piano piano, è lo scollamento tra la vita che Mahmut si è lasciata alle spalle, la vita che consuma ogni giorno e la vita sognata una volta, tanto tempo fa, quando voleva “fare il cinema come Tarkovskij”, il cinema che oggi rivede in cassetta ma solo tra un porno e l’altro.

E lontananza è viaggiare in ogni dove per scoprire che tutti i luoghi si somigliano e anche noi non facciamo che agitarci per restare, alla fine, sempre e solo ciò che siamo; è seguire qualcuno senza mai raggiungerlo. Ma è anche trovarsi un giorno in casa un giovane parente venuto da lontano, con niente in mano ma un mucchio di sogni sulle spalle, e non riuscire a comunicare con lui che, pure, con la sua fatuità e la inconcludenza scatenerà una vera implosione nel rassegnato abbandono di Mahmut.

Uno straziante e sfibrante sentimento di distanza da tutto raccontato, insomma, attraverso la storia di un incontro che sembra solo uno scontro ed è, invece, un viaggio, zigzagante tra le piccole incombenze del quotidiano e le gigantesche ombre dei nostri incubi.

Un viaggio raccontato con poche parole, coniugando straordinariamente stile minimalista e dolorosa intensità dello sguardo che subito, dalla prima sequenza, fagocita lo spettatore nel bianco senza appigli di una inedita Istanbul innevata, dove le cupole delle moschee appaiono come forme di una favola.

Ma la favola trova spazio solo tra le pieghe in questa vita tradita, buttata via, peggio ancora con cruda consapevolezza guardata scivolare, goccia a goccia, come si guarda la morte (inevitabile?) di un povero topolino rimasto incollato alla carta topicida.

L’unica favola possibile è quella che il casuale disordine, l’involontario umorismo della vita fanno scaturire, con indifferenza. Il turco Ceylan, con il grande talento d’autore ormai mostrato e dimostrato, magari un’altra volta ce la racconterà e non solo tra le pieghe.

Imperdibile.

Nei cinema, distribuito da Ladyfilm.