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Uzak

Francesco Siciliano, Cinema Multiplayer (Italy), 26/06/2004


Esce con largo ritardo nelle sale italiane Uzak, film turco premiato al Festival Di Cannes 2003. Minimalismo e semplicità espressiva sono le sue carte vincenti.


Minimalismo alla russa.
Che la distribuzione italiana non fosse sempre attenta ad alcuni film minori (la lista è molto lunga), etichettati ingiustamente “da festival”, è cosa nota soprattutto a chi ha un occhio di riguardo per le pellicole meno sponsorizzate che percorrono tracciati più insoliti. Di Uzak, presentato al Festival di Cannes 2003 dove ha vinto il Gran Premio Della Giuria e il premio per il miglior attore protagonista, avevamo perso le tracce, ora esce finalmente nelle sale italiane con tanto di gioia per chi in questo periodo estivo non riesce a trovare del buon cinema.


Ambientato in una Istanbul gelida e rarefatta, Uzak mette in risalto l’ambivalenza di due personaggi apparentemente diversi ma uniti dall’impossibilità di raggiungere la pace con se stessi che si erano (forse) prefissati. I primi frangenti sono emblematici, mettono in risalto la matrice di essenzialità di cui gode (positivamente) la messa in scena, e l’intero film, che a sua volta non lascia spazio alle parole, si affida alla pura oggettività, non filtrata da alcun artificio, delle immagini. Così la macchina da presa osserva, ritrae, segue lo sguardo spento di un fotografo disilluso e del suo ospite, arrivato ad Istanbul in cerca di lavoro dopo essere stato licenziato dalla fabbrica. Purtroppo il suo scopo, quello di trovare una occupazione presso una nave mercantile, non sembra andare a segno. Alla fine lascerà la città e il suo amico, quest’ultimo ormai sempre più solo soprattutto dopo che la persona amata è per sempre perduta.


Oltre che concentrarsi sulle storie personali dei suoi protagonisti, il regista Nuri Bilge Ceylan cerca di portare avanti un discorso sulle contraddizioni della Turchia, dove vige una sorta di egoismo sociale mentre tutto intorno si sgretola. Ed è con questo sottotesto che l’autore inquadra una storia che ha la capacità di essere efficacemente minimalista, nonostante l’introspezione dei personaggi assuma diverse sfaccettature complesse che per certi aspetti rimangono inespresse per lasciar maggior spazio allo spettatore. I due personaggi sono due facce della stessa medaglia, visto che li accomuna una solitudine, apparentemente indiretta ma per forza di cose cercata, che li circoscrive. Incapaci di reagire, vuoti d’animo, non troveranno soluzione al loro dilemma esistenziale: per l’uno (ri)scoprire l’amore e per l’altro un impiego che però tarderà ad arrivare. Questa situazione di stasi è destinata a protrarsi: il deserto che li circonda viene ridipinto- sostituito rispettivamente dalla fruizione di materiale erotico per colmare le carenze affettive e dal bighellonare in giro in cerca di una ragazza da corteggiare per riempire le giornate perditempo.


Forse troppo scarno, forse troppo freddo, il film comunque colpisce nel segno quando cerca di dare peso alla solitudine, al vuoto che circonda lo sguardo sterile degli interpreti, aiutato in questo da una regia che predilige il silenzio angusto, il mutismo dei personaggi, l’inespressività dei volti. A questo proposito è perfetto il piano-sequenza finale che concentra in pochi attimi tutta l’essenza del film, in cui la macchina da presa parte da lontano per poi stringere sul viso del fotografo, rimasto ancora una volta a contemplare se stesso mentre fuma una sigaretta che troppo tardi ha deciso di accendere (quest’ultima faceva parte del pacchetto offerto pochi giorni prima con gentilezza dall’ospite proprio al fotografo, il quale risponde declinando l’invito e dicendo seccamente che “non fumo quella merda”).


Il film in definitiva mette in risalto anche il predominio dell’immagine sul suono (la colonna sonora, privata del suo apporto), sui dialoghi (la sceneggiatura), quasi per confermare come non esista miglior modo di catturare la desolazione esistenziale se non con una semplice inquadratura priva di “agenti esterni” come ridondanze orchestrali o parole che il vento fa presto a portar via con sé.