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Uzak
: L’uomo che guarda
Vincenzo Sangiorgio, Cinemavvenire (Italy), June 14,
2003
Se il Festival di Cannes 2003 non può essere definita
l'occasione più ricca di contenuti cinematografici da molti anni a questa
parte, in Uzak c’è almeno una scena che andrebbe conservata in un ideale
galleria delle genialate festivaliere: seduti di fronte ad un televisore
che trasmette le immagini di Stalker di Andrej Tarkovskij (e precisamente
la lunga serie di carrelli a seguire i volti dei personaggi subito dopo
la loro penetrazione su binari nella ‘Zona’) i due protagonisti (un fotografo
e un operaio disoccupato: indovinare chi tra i due è l’intellettuale)
sembrano destinati a una serata impegnata. L’operaio, palesemente a disagio
di fronte ai long takes del regista russo, cede, abbandonando il campo
a quello che sembra essere il vero estimatore di cinema di qualità; il
fotografo, invece, attesa la dipartita del parente nella stanza adiacente,
toglie la cassetta col capolavoro per dedicarsi alla visione di un porno
veloce veloce, giusto in tempo per essere scoperto con le mani nella marmellata
proprio dall’operaio, rientrato fortuitamente nella sala.
Solo considerando questa scena molti potrebbero pensare che il film di
Nuri Bilge Ceylan non abbia nulla di così geniale da meritare un premio
della giuria: ma tutti coloro che hanno frequentato almeno un festival
di cinema sanno perfettamente che le premiazioni, i riconoscimenti, le
coppe/insalatiere/vassoi/orsacchiotti, oltre a perpetuare quella strana
mania di classificazione che al cinema funziona poco (che cosa significa
che un film è ‘migliore’ di un altro?), non rispecchiano quasi mai la
gerarchia di valori effettivamente espressa in loco, risultando così una
delle attività più futili dell’intera gamma di frivolezze concesse all’alveo
cinematografico.
Paradossalmente, nonostante la catena di agnizioni sballate, elogi alla
crosta e spintarelle all’amico Fritz, sono però proprio i verdetti di
una giuria calata dall’alto a miracol plasmare gli unici a poter sdoganare
nel mercato occidentale i lavori di quegli autori che altrimenti sono
destinati a svernare vita natural durante in sperduti deserti commerciali:
questo non toglie che a ogni nuova edizione si finisca, quasi inevitabilmente,
a parlare del nulla, convinti per di più di contribuire con tale sforzo
allo sviluppo dell’arte cinematografica.
Forse proprio per queste necessità di prammatica su Uzak si sono evitati
i commenti e le considerazioni di merito (domanda: ma almeno è stato visto?),
lasciando spazio solo alle polemiche contro una selezione colpevolmente
francocentrica e ai facili paternalismi su uno sconosciuto regista turco,
quello che alla vigilia della fiera avrebbe ampiamente firmato per una
comparsata-premio sulla Croisette, e invece si ritrova (suo malgrado)
nel palmares assieme ai grandi nomi del cinema indipendente mondiale.
Invece il film di Ceylan, pur non essendo un lavoro per cui gridare alla
gemma trovata nel paiolo, evidenzia una vitalità a tratti sorprendente,
accompagnata da una notevole capacità di sintesi e di ‘gestione’ del territorio
sintattico che a tratti lascia spazio a quella timida tendenza al calembour
rintracciabile proprio nella sequenza sopra descritta.
Allo stesso tempo però in Uzak non si capisce bene quale sia il vero intento
dell’autore: partito, come può suggerire il titolo stesso (uzak=distante),
per declinare attraverso le vicende di due personaggi tipo (l’‘artista’
borghese vs. il villico popolano) una condizione umana improntata sulla
differenza e sull’incomunicabilità, Ceylan raggiunge il più ampio grado
di efficacia in quello che sembrerebbe a prima vista solo una zona secondaria
del suo percorso, nel tratteggio dei rapporti di forza tra l’universo
maschile e quello femminile. Laddove non si è persa ancora quella perversa
sessualità fondata sugli sguardi, in cui le visioni sono corteggiamento,
carezze e penetrazioni e l’economia del corpo è improntata ad una accurata
selezione dei movimenti muscolari, gli esseri umani sono estranei all’anodina
pervasività focale del mondo occidentale: non dei semplici guardoni vessati
nell’onanismo più inetto, ma dei produttori di piacere ‘puro’, sostanza
che si costruisce direttamente con la mente in un’operazione sintetica
(fotografica, non a caso) in cui è la fantasia ad essere fondamentale.
Lasciando sul fondo dell’inquadratura o addirittura nel fuoricampo i corpi
nudi di un movimento sessuale già avvenuto, Ceylan si sofferma sull’occhio
evidenziandone le prerogative tattiche, mostrando come sia esso l’organo
sessuale principale la cui funzionalità e fedeltà è condizione sine qua
non per un godimento utile alla sopravvivenza sul pianeta.
La distanza tra due soggetti assolutamente antitetici, legati solo da
un labile contatto parentale, allontanati da condizioni esistenziali quasi
opposte, viene allora paradossalmente colmata dalla medesima necessità
di ‘amore’, rintracciabile nella speculare solitudine in inquadrature-sequenza
violentemente ‘fisse’, in cui i personaggi si perdono quasi staccati dal
fondo territoriale in cui sono immersi: in quadretti non sempre totalmente
risolti, ma comunque apprezzabili, Ceylan postula una crisi esistenziale
che è completa sia che si sia pienamente inseriti nei meccanismi di potere,
sia che ci si trovi alla deriva e in cerca di qualsiasi appiglio utile
per il mantenimento di sé. C’è del marcio in Turchia, in attesa che il
panopticon postmoderno metta tutto in chiaro, magari spruzzando un po’
di nostalgia per le spiate del tempo che fu.
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