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UZAK

MARCO CAVALLERI, Sedicinoni (Italy), 15 giugno 2004


Mahmut è un fotografo affermato ma ormai privo degli slanci ideali con cui aveva iniziato la carriera: ha trovato la sua sicumera proponendosi per i cataloghi di una multinazionale delle ceramiche, si è separato dalla moglie, di quando in quando vede un'amante per cui evidentemente non prova nulla e per il resto vegeta nel proprio lussuoso appartamento.

Finché non viene a fargli visita Yusuf, cugino del paese natio, che a seguito della chiusura delle fabbriche locali cerca un impiego su una nave per poter girare un po' il mondo. Ma i due - nonostante le aspirazioni dell'uno riecheggino quelle con cui era partito alla volta del mondo l'altro - non si piacciono: Yusuf è troppo istintivo e idealista, Mahmut esibisce la propria mediocrità per non farsi coinvolgere emotivamente da niente e nessuno. E mentre i giorni si trascinano - unica attività condivisa quella della caccia a un topo in cucina - le relazioni peggiorano. Finché un giorno Mahmut troverà l'appartamento vuoto…


Uzak - opera totale di Nuri Bilge Ceylan, che ha firmato regia, sceneggiatura, fotografia e compartecipato al montaggio - è stato uno dei trionfatori della scorsa edizione del Festival di Cannes, aggiudicandosi Gran Premio della Giuria, Palma d'Oro ex - aequo per gli attori (uno dei quali morto tragicamente in un incidente d'auto prima della premiazione) e premio Fipresci. Numeri impressionanti, ma che possono suscitare qualche diffidenza: si sa che l'anno scorso Cannes conobbe una delle sue edizioni peggiori, e il dubbio che si trattasse di premi per un film meramente "da festival" era tutt'altro che sospeso. A distanza di più di un anno la pellicola arriva nelle sale, probabilmente destinata a vita grama: varrebbe davvero la pena di vederla, ché si tratta di uno dei migliori film dell'annata. Per esaminare il film conviene partire dal titolo, che significa grossomodo "lontano": e per una volta il termine assume un significato pieno, tanto a livello stilistico quanto contenutistico. Se il secondo si impone immediatamente - registrando con lieve ironia ma profondo pessimismo una lontananza tra gli uomini ormai irrimediabile, che non coinvolge semplicemente i due parenti ma tutto il loro milieu e le relazioni occasionali che vi si stabiliscono - dall'amante di Mahmut all'impiegato delle agenzie di collocamento che cortesemente ma freddamente risponde a Yussuf di leggere il cartello "completo" prima di entrare a chiedere se ci sono posti vacanti - è soprattutto il primo livello a sorprendere. Uno stile lontanissimo - verrebbe da dire alieno - rispetto a quanto ci ammanisce il cinema attuale: fatto di campi lunghi, piani sequenza, tempi morti che si riaccendono improvvisamente senza portare a nulla. E, soprattutto, di dialoghi meramente enunciativi che rimandano - più che ad antecedenti cinematografici (del resto gli amori del regista, da Tarkovskij al muto, sono dichiarati esplicitamente, salvo poi ribaltarne il segno beffardamente inserendo la sequenza di un film porno) - al Beckett di Finale di partita (anche qui una relazione servo - padrone in qualche modo parentale, anche qui un topo che dà fastidio in cucina…). E come nel drammaturgo inglese non c'è salvezza o possibilità di cambiamento: le svolte possibili (il viaggio dei due nei paesaggi arcaici della Turchia profonda) vanno sprecate, gli eventuali desideri di dialogo arrivano sempre troppo tardi, in una Istanbul invernale che sembra (e forse è) abitata da fantasmi più che da persone, dove cinquanta canali televisivi non trasmettono nulla e al protagonista rimane solo la possibilità di vedere gli altri vivere senza poter partecipare.

Non sarà un capolavoro, come pure si è spinto a dire qualcuno: ma senz'altro ci va vicino. Il che, in un'annata cinematografica non esattamente memorabile, è qualcosa di più di un invito alla visione.