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Uzak
Questo scorcio di stagione, imprevedibilmente,
sta regalando chicche ai nostri occhi annoiati (altre sono in arrivo):
UZAK, che viene dal Festival di Cannes 2003, dove aveva ricevuto il Gran
Premio della Giuria e la palma (forse esagerata) al migliore attore, ha
il merito di rivelare al mondo (la nomination all’Oscar per il miglior
film straniero non è evento da poco per una cinematografia, quella turca,
in ombra da decenni) il talento di un autore giunto al suo terzo lungometraggio.
Ceylan, percorrendo la via impervia della semplicità (non è un ossimoro),
rappresenta con profondità e amara ironia il duello psicologico che si
combatte all’interno della casa del protagonista (l’immagine del topo
catturato è sottile metafora della condizione dei due, il cui comportamento
osserviamo come se si trattasse di cavie da laboratorio – non a caso il
padrone di casa finirà nella stessa trappola predisposta per l’animale
-): il cugino, licenziato, riporta tra le mura dell’appartamento di Mahmut
una condizione che egli aveva superato e completamente rimosso e se all’inizio
l’interessamento di prammatica per la sorte di Josuf sembrerebbe sincero,
in seguito l’ombra della miseria che torna ad aleggiare dalle sue parti
sembra infastidire il fotografo, seccato dalla poca sollecitudine che
il cugino dimostra nel cercarsi un’occupazione. Due figure meravigliosamente
ritratte e che pur dividendo lo stesso tetto si scoprono incredibilmente
distanti (uzak vuol dire, per l’appunto, “lontano”): Mahmut, uomo oramai
disilluso, è alla ricerca di un’emozione che lo riscatti dall’aridità
e da sensi di colpa che sovrani regnano in un’esistenza che si è fatta
solitaria, consacrata a riti quotidiani scanditi dalle immagini del televisore;
il cugino, la cui sorte sembra segnata dall’incertezza del futuro, preferisce,
nella precaria condizione della sua attualità, tentare di carpire un piacere
fulmineo, per quanto effimero e illusorio. Le immagini di Istanbul imbiancata
dalla neve non sono mero sfondo ma parte viva di un ritratto che non ha
urgenza di raccontare - preferendo restituire stati d’animo, atmosfere
e situazioni attraverso campi lunghi, montaggio antididascalico, dialoghi
scarni ed essenziali - e che dimostra, pur in un impianto quasi documentaristico,
una notevole ricercatezza figurativa, esaltata dalla splendida fotografia
diretta dallo stesso Ceylan.
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