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UZAK
– LONTANO
Domenico Barone, Vivil Cinema (Italy), June 2004
Malinconico racconto antropologico ed esistenziale sul distacco nelle
relazioni, sull’impossibilità di decodificare il presente e sulle nuove
contraddizioni sociali ed economiche, “Uzak”, premiato con il Gran Premio
della Giuria a Cannes ed il riconoscimento ai suoi protagonisti, è un
block notes ricco di annotazioni sul senso dissociativo della realtà,
con lampi inattesi di comicità sul contrasto tra chi è diventato, o si
è sforzato di esserlo, cittadino, e chi invece è riuscito a conservare
una mentalità paesana. L’operaio licenziato Josef arriva nel gelo d’inverno
in cerca di un imbarco come marittimo e viene ospitato in città, dal parente
fotografo affermato appena scaricato dalla sua compagna, semplicemente
per dovere di ospitalità. Tra i due uomini, conviventi forzati, scattano
piccole ripicche e sgarbi quotidiani.
Partendo dalle stesse premesse del film omonimo di Techinè (“Loin”), l’autore,
fotografando istantanee di Istanbul sotto una luce livida, che dilata
ancora di più il senso di smarrimento ed estraniamento dentro metropoli
tutte uguali, tallona i suoi protagonisti riprendendo ogni azione apparentemente
marginale e senza significato, con una tecnica narrativa che alterna tempi
veloci e lenti, per evidenziare sempre più la difficoltà di comprendere
e comunicare dentro piccoli spazi, e l’eterno conflitto tra innocenza
e consapevolezza, in cui la semplicità delle parole viene sempre mortificata
da una visione pregiudizialmente intellettuale, contrapposta alla speranza
di chi crede di riscattarsi imbarcandosi verso una meta sconosciuta.
“Uzak”, con le sue gag mute, tra cassette porno e conviventi forzati che
vivono facendosi dei dispetti, mostra la quotidianità senza idealismi
e compiacimenti; il fotografo resta isolato dai sensi di colpa e dal tedio
delle relazioni familiari, in un cinema che osserva le mutazioni sociali,
ma è solo apparentemente distante dagli avvenimenti politici filmati da
Guney. Bilge Ceylan mette a fuoco, nella figura dell’aspirante marinaio
che invidia la serenità delle coppie che giocano tirandosi palle di neve,
il suo distacco sempre più lacerante dalle cose del mondo, nelle metropoli
in cui non esistono più piazze per potersi incontrare ed in cui la folla
viene sempre inquadrata da lontano. Ma se, prima, l’unica fuga possibile
sarebbe stata la quiete rassicurante della campagna, nel film prevale
il sentimento e l’idea del volontario esilio, del totale annullamento
di sé, della razionale cancellazione delle radici.
Più che una commedia morale sulla solitudine, con dialoghi essenziali
e minimi, la storia diventa una riflessione sulla separazione e l’incapacità
di inquadrare il malessere reale, in cui ogni stanza si trasforma in palcoscenico
per mettere in scena le nevrosi, le abitudini e le insofferenze che scandiscono
l’isolamento. Ceylan osserva la filosofia della sopravvivenza, profondamente
influenzato dalla forza delle immagini di Antonioni e dal simbolismo di
Anghelopoulos, senza mai preoccuparsi di capire fino in fondo le ragioni
della crisi, e concentrandosi sulle alterazioni dei rapporti.
“Uzak” scarta saluti e cartoline dal Bosforo, con il suo razionale ed
illuminato pessimismo, e fotografa l’indifferenza dei non riconciliati
che soffrono in silenzio, consapevoli di non potersi mai adattare al capolinea
di un mondo che continuerà a non capirli, senza classificarli.
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